Written by admin-apieffe on Marzo 2, 2025 in Apieffe50

La rassegna prosegue con il contributo redatto dalla Dott.ssa Veronica Marrapodi, Giudice della Prima Sezione civile del Tribunale di Bergamo, che offre uno spunto interessante  di riflessione circa le “raccomandazioni internazionali sulla formazione e sensibilizzazione dei professionisti sul tema della violenza di genere e domestica”, con particolare riguardo al ruolo dell’Avvocato.

Si ringrazia la Dott.ssa Marrapodi per il suo prezioso contributo.

 

Le raccomandazioni internazionali sulla formazione e sensibilizzazione dei professionisti sul tema della violenza di genere e domestica. Il ruolo cruciale dell’Avvocato nel contrasto al fenomeno, dentro e fuori il processo civile di famiglia.

di Veronica Marrapodi
Giudice della Prima Sezione civile del Tribunale di Bergamo

Nel corso degli ultimi decenni si è assistito ad una sempre maggiore sensibilità e consapevolezza da parte della società civile e della comunità internazionale della necessità di dotarsi di sovrastrutture, procedure, raccomandazioni e buone prassi idonee a contrastare il fenomeno della violenza sulle donne. Il primo trattato internazionale in materia è rappresentato dalla Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne (CEDAW), adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 18/12/1979, definita la Carta internazionale dei diritti per le donne; ad essa seguiva la sottoscrizione della Convenzione sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, conosciuta come Convenzione di Istanbul, adottata l’11/05/2011 dagli Stati membri del Consiglio d’Europa ed entrata in vigore anche per l’Unione europea ad ottobre 2023. Particolarmente significativa è stata la produzione normativa in seno all’Unione europea nell’ottica di migliorare le legislazioni e le politiche nazionali volte a combattere tutte le forme di violenza, garantendo il diritto all’assistenza e al sostegno alla vittima ed affrontandone le cause anche mediante misure di prevenzione.

Appare significativo ricordare che già la Convenzione di Istanbul si occupava del tema della formazione, obbligando gli Stati Parti a fornire o rafforzare un’adeguata formazione delle figure professionali che si occupano delle vittime o degli autori di tutti gli atti di violenza, in materia di prevenzione e individuazione di tale violenza, uguaglianza tra le donne e gli uomini, bisogni e diritti delle vittime, e su come prevenire la vittimizzazione secondaria (art. 15). Anche l’Unione europea, nelle sue direttive in materia, ha esortato gli Stati membri a promuovere un adeguato livello di preparazione sia generale sia specialistica, a favore di: giudici e pubblici ministeri coinvolti nei procedimenti penali e nelle indagini, promuovendo una formazione basata sui diritti umani, incentrata sulle vittime e sensibile alle specificità di genere, delle persone con disabilità e dei minori; funzionari che hanno probabilità di entrare in contatto con le vittime, come gli agenti di polizia e il personale giudiziario, affinché siano sensibilizzati maggiormente sulle esigenze di queste, offrendo loro strumenti per trattarle in modo imparziale, rispettoso e professionale; professionisti della sanità (ovvero pediatri, ginecologi, ostetrici e personale sanitario che si occupa di assistenza psicologica), servizi sociali e personale educativo, affinché sappiano individuare i casi di violenza contro le donne o di violenza domestica e, quindi, indirizzare le vittime verso i servizi di assistenza specialistica; non ultimi gli avvocati, affinché abbiano una formazione di livello appropriato, che li sensibilizzi maggiormente ad interagire con le vittime in modo consono al trauma, alla dimensione di genere e all’età dei minori (v. art. 36, direttiva 2024/1385/UE, che gli Stati membri sono chiamati a recepire entro il 14/06/2027).

Sebbene le direttive adottate dall’Unione europea riguardino in special modo il processo penale, è indubbio che preparazione e sensibilizzazione analoghe debbano essere garantite anche in ambito civile, sia per la Magistratura ordinaria e minorile sia per l’Avvocatura, quando chiamata a rappresentare e difendere un adulto vittima di violenza, un adulto autore di violenza o il figlio minore di chi ha subito e agito violenza, ancor di più dopo l’entrata in vigore della Riforma Cartabia varata con il D. Lgs. 10/10/2022 n. 149, che ha introdotto una disciplina speciale ad hoc per i procedimenti in cui siano allegati abusi familiari o condotte di violenza domestica o di genere poste in essere da una parte nei confronti dell’altra o dei figli minori (artt. 473-bis.40 ss. c.p.c.).

Se è vero che la Riforma ha consentito di attuare, sul piano della procedura interna, gli obblighi che l’Italia aveva assunto anni addietro sul piano internazionale, è innegabile che essa abbia rivoluzionato i tradizionali schemi del processo civile, che Avvocati e Magistrati erano professionalmente preparati e abituati ad applicare per quanto concerne l’accertamento dei fatti e l’assunzione delle prove. Oggi, l’Avvocato che assume l’incarico in una causa civile dove vi sono allegazioni di violenza non solo deve assicurare la qualità della assistenza legale nei diversi livelli delle fasi processuali, ma deve anche essere professionalmente preparato ad interfacciarsi e a gestire il rapporto con la vittima di violenza, sin dal primo contatto, evitando di cadere, pur in buona fede, in atti di vittimizzazione secondaria nei termini indicati dalla Convenzione di Istanbul, dalle direttive dell’Unione europea, dalle pronunce rese dalla Corte EDU e dal Comitato CEDAW, ma anche dalle Sezioni Unite della Cassazione che hanno definito la vittimizzazione secondaria quell’insieme di comportamenti che fanno rivivere le condizioni di sofferenza a cui è stata sottoposta la vittima di un reato, di cui sono responsabili coloro che di lei dovrebbero farsi carico per tutelarla nell’ambito delle procedure delle istituzioni, o comunque nell’ambito di un procedimento giurisdizionale (come forze di polizia, magistrati, consulenti psicologi, avvocati), con il rischio di scoraggiare la presentazione della denuncia da parte della vittima stessa (cfr. Cass. S.U. Civ. n. 35110/2021).

Nel Libro Bianco per la formazione Violenza maschile contro le donne, curato dal Comitato tecnico-scientifico dell’Osservatorio sul fenomeno della violenza nei confronti delle donne e sulla violenza domestica, istituito dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento per le Pari Opportunità, pubblicato nel mese di novembre 2024, si legge che il settore civile e minorile è quello più delicato per l’effettivo contrasto alla violenza contro le donne in tutte le sue esplicazioni, sia per il rischio di vittimizzazione secondaria delle madri che denunciano violenza su di sé o sui propri figli da parte del partner, sia per il rischio che la violenza venga confusa con il conflitto familiare, con l’effetto, sotto il profilo civile, di sospendere la responsabilità genitoriale alla vittima attribuendole la volontà di allontanare il padre dai figli. Ecco che l’Avvocatura assume un ruolo cruciale nel contrasto alla violenza contro le donne, in ogni ambito in cui si trova ad operare, perché ha il contatto diretto con autori o vittime e ne direziona l’attività difensiva. Grazie al ruolo privilegiato che riveste per via del rapporto di fiducia che instaura con la parte che assiste, l’Avvocato è in grado di acquisire elementi di prova utili all’accertamento dell’esistenza, o meno, di forme di violenza nel contesto da esaminare, versando nel processo civile tutti gli atti ostensibili e i provvedimenti già assunti in altro procedimento, in particolare dall’autorità giudiziaria penale come prescritto dall’art. 473-bis.41 c.p.c.; saprà contrastare eventuali iniziative avversarie tese a strumentalizzare le allegazioni di violenza o a screditare il ruolo genitoriale della vittima, come spesso avviene; saprà informare e consigliare al meglio il suo cliente sulle possibili determinazioni dell’organo giudicante e sui possibili risvolti processuali, nella consapevolezza che gli atti trasmessi dall’autorità requirente o giudicante penale saranno oggetto di autonoma valutazione da parte del giudice civile, in vista dell’assunzione di decisioni sull’affidamento, sulla collocazione abitativa dei figli e, più in generale, sull’esercizio della responsabilità genitoriale (Cass. civ. sez. I, ord. n. 24726/2024), e che comunque, senza automatismi, verrà accertata l’esistenza della violenza allegata quand’anche vi fosse una archiviazione della notizia di reato (Cass. civ. sez. I, ord. 4595/2025), posto che la regola probatoria vigente nel processo civile non è quella dell’oltre il ragionevole dubbio, ma della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non (Cass. pen, sez. III, sent. n. 29612/2010); sarà nella condizione di verificare che ausiliari ed esperti di cui si avvale il giudice siano dotati di adeguata formazione in materia di violenza e, soprattutto, non siano condizionati – si legge nel Libro Bianco – da quelle teorie a-giuridiche e ascientifiche come la cosiddetta alienazione parentale o formule analoghe che celano lo stesso tipo di teorie; saprà sollecitare la vittima di violenza a rivolgersi ai “centri antiviolenza” presenti sul territorio e l’autore della violenza ai “centri di recupero per maltrattanti”, promuovendo il cambiamento e stimolando l’analisi sui propri comportamenti, in vista del recupero delle competenze e capacità genitoriali funzionale ad una graduale ripresa della relazione affettiva coi figli, così garantendo l’effettivo rispetto del best interest of child sempre prevalente sul principio di bigenitorialità in base al disposto dell’art. 31 Convenzione di Istanbul che, come sappiamo, fa dipendere la determinazione dei diritti di custodia e di visita dei figli all’esistenza degli episodi di violenza che rientrano nel campo di applicazione della Convenzione.

L’auspicio è che anche l’Avvocatura, autonoma e indipendente dall’organo giudicante, possa svolgere una funzione sì di rappresentanza, protezione e difesa, ma anche di consiglio dell’assistito, favorendo essa stessa la diffusione di un modello sociale e culturale in cui il diritto alla bigenitorialità non può essere concepito come un diritto assoluto, trattandosi, più propriamente, di un diritto-dovere che discende dall’espletamento di una appropriata funzione di cura, protezione ed educazione, compromessa e bisognosa di essere recuperata là dove il genitore abbia posto in essere condotte maltrattanti o abusanti verso l’altro genitore e/o verso i figli che hanno subito i traumi della violenza diretta o assistita.