
La rassegna prosegue con il contributo elaborato dall’avvocato Massimo Foglia, Associato di Diritto Privato presso l’Università degli Studi di Bergamo, che offre un approfondimento sul danno da nascita indesiderata, ripercorrendo gli ultimi approdi normativi, giurisprudenziali e dottrinali, che inevitabilmente si intrecciano ad interrogativi etici”.
Si ringrazia il Prof. Foglia per il suo prezioso contributo.
Brevi osservazioni in tema di danno da nascita “indesiderata”
di Massimo Foglia
Professore associato di diritto privato nell’Università degli studi di Bergamo
- In dottrina si parla di danno da “nascita indesiderata” quando i medici, chiamati nella fase prenatale ad accertare eventuali anomalie del feto, abbiano colposamente mancato di rilevare che il bambino sarebbe nato con malformazioni.
La prima questione riguarda la facoltà di interrompere la gravidanza. Se i genitori, e in particolare la madre, avessero saputo dell’esistenza delle malformazioni avrebbero potuto esercitare tale facoltà. L’art. 6, lett. b, della L. 22 maggio 1978, n. 194 ammette infatti la possibilità di abortire quando siano accertati processi patologici connessi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, e quando tali anomalie assurgano a causa di grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
In secondo luogo, sul piano risarcitorio, la fattispecie in esame solleva un quesito di fondo: “un bambino non voluto è un danno risarcibile?” [v. D’Angelo (a cura di), Un bambino non voluto è un danno risarcibile?, Milano, 1999]. Ed ancora: se la nascita indesiderata può tradursi in un danno risarcibile, tale danno deve includere tutti i costi che i genitori avrebbero comunque sostenuto in presenza di un figlio sano oppure esso deve limitarsi al danno “differenziale”, vale a dire solo a quella parte corrispondente agli oneri necessari per far fronte ad una vita in condizioni di disabilità?
Se da un lato è considerato un fattore positivo che l’ordinamento giuridico favorisca e tenda a promuovere l’assunzione consapevole della condizione di genitore, dall’altro si avverte il rischio che il progredire delle possibilità predittive della consulenza genetica possa diventare « pretesto di astensioni futili, di rinunce al proposito procreativo o di sua dilatazione per ragioni di conformismo e di moda, e così alla lunga fattore di omologazione degli individui della specie umana » [Carusi, Chiamati al mondo. Vite nascenti ed autodeterminazione procreativa, Atti del Convegno di Genova (24 maggio 2013), Torino, 2015, 8]. Viene sottolineato il timore di una deriva eugenetica, in cui l’interruzione della gravidanza possa divenire strumento di selezione delle nascite, e dunque espulsa dalla sua autentica dimensione di legittimità [cfr. Corte cost. 10 febbraio 1997, n. 35, in Foro it., 1997, I, 653 ss.]. Condizioni legittimanti che la vigente legge sull’aborto appunta fondamentalmente sulla salute della gestante e sulla sua possibilità di condurre a termine la gravidanza senza particolari rischi per la propria incolumità fisica e psichica.
Del resto va ricordato che la L. n. 194/1978 sancisce «il diritto del concepito alla vita (…) che può essere sacrificato solo nel confronto con quello, pure costituzionalmente protetto e da iscriversi tra i diritti inviolabili, della madre alla salute e alla vita » [Corte cost. 10 febbraio 1997, n. 35, in Foro it., 1997, I, 348 ss., cit.]. Il diritto alla vita del nascituro va considerato anch’esso un diritto inviolabile, che incontra un limite nella vita e nella salute della donna.
Ammettere la tutela risarcitoria di nuove doglianze, direttamente riconducibili pure al nascituro, sarebbe per alcuni un segnale dello slittamento verso quella deriva eugenetica poc’anzi ricordata. Un disagio atavico si avverte nel porsi dinnanzi alla vita non più accettandola per quel che è, ma guardandola «alla stregua di un prodotto che se, dal confronto con lo standard di un’esistenza pienamente funzionale, risulta scadente può essere in un certo qual modo “rifiutata” o almeno alleviata per via risarcitoria» [Gorgoni, Il danno da procreazione: profili civilistici (del se, del quando e del come essere chiamati al mondo), in Carusi (a cura di), Chiamati al mondo. Vite nascenti ed autodeterminazione procreativa, cit., 35].
Così come a molti inquieta che, per le regole del diritto, possa concepirsi il paradosso di una «vita ingiusta»: espressione che, quandanche ritenuta “infelice” [Ruda, “I Didn’t Ask to be Born”: Wrongful Life from a Comparative Perspective, in JECTL, 2010, I, 205], perché suggerirebbe l’idea per cui, alla base del torto, vi sia il fatto che al bambino non sia stato impedito di venire al mondo, si ritrova sia negli ordinamenti di matrice anglosassone (wrongful life) sia, in termini analoghi, in altri sistemi di civil law, come in Germania (Kind als Schaden) [v. Picker, Schadenersatz für das unerwünschte eigene Leben “Wrongful life” (1995), trad. it. di D. Canale, Il danno della vita: risarcimento per una vita non desiderata, a cura di P. Zatti e D. Canale, Milano, 2004] e in Francia (bébé préjudice).
- Il tema della procreazione solleva interessi e problematiche che riguardano una pluralità di soggetti. La donna, anzitutto, in virtù della sua facoltà di esercitare la scelta abortiva, a tutela della sua salute psico-fisica e in favore di una maternità cosciente e responsabile. Il partner della gestante che con lei condivide l’esperienza della “genitorialità”, oltre agli oneri di mantenimento del figlio, e che partecipa affettivamente all’evento della nascita. Talvolta anche i fratelli e le sorelle del nascituro, che fanno parte della comunità familiare e che vivono anch’essi l’avvento del nuovo nato, subendone, nei casi di nascita malformata, tutti i potenziali riflessi negativi [v. Cass. 2 ottobre 2012, n. 16754, in Corr. giur., 2013, 45]. Infine il nascituro, perché, tacendo in questa sede sull’antico problema della sua soggettività, è discusso se egli possa vantare un’autonoma pretesa risarcitoria connessa al sorgere di una “vita menomata”, seppur sempre vita, che si lega indissolubilmente — anche sotto l’aspetto eziologico — all’interesse ad una maternità cosciente e responsabile. Ed infatti l’esercizio del diritto corrispondente spetta inevitabilmente soltanto alla madre, la quale «decide presuntivamente per il meglio anche nei confronti del figlio» [Così Monateri, Il danno al nascituro e la lesione della maternità cosciente e responsabile, in Corr. giur., 2013, 60 (il corsivo è dell’A.)].
Si intuisce che, anche nella prospettiva risarcitoria, un filo rosso collega la posizione della donna nella fase della gestazione a quella di colui che porta in grembo. La configurabilità di qualsivoglia pretesa risarcitoria in capo al concepito dipenderà, al pari dell’esistenza stessa di quest’ultimo, da scelte in qualche modo imputabili alla madre (i.e. la volontà stessa — in ipotesi — di non voler generare un figlio menomato, e quindi la preferenza accordata alla non-vita in luogo di una vita-menomata, appartiene, seppur nei limiti di legittimità fissati dalla legge, soltanto al genitore). Sono dunque i genitori, e soltanto loro, che possono farsi portatori di istanze e interessi che tuttavia attengono alla sfera soggettiva del nato, evidentemente non in grado di manifestare una propria e autonoma determinazione [v. sul punto anche Cass., sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25767, in Giur. it., 543].
Occorre allora ragionare anche sulla tesi della “propagazione del danno in capo al nuovo nato”, e cioè sulla possibilità di ammettere che la responsabilità per il danno da nascita indesiderata (wrongful birth) si “propaghi” nei confronti, oltre che della madre e del padre, del nuovo nato, attentando così alla propria sfera giuridica sotto il profilo di una autonoma pretesa risarcitoria per wrongful life [in tal senso, Cass. 2 ottobre 2012, n. 16754, cit.]. Ci si riferisce al problema giuridico del se — ferma la sussistenza di un pericolo per la salute della madre — «possa il concepito malformato, una volta nato, richiedere il risarcimento del danno per la “vita ingiusta” che egli ha avuto in conseguenza del comportamento omissivo o errato del medico nei confronti della propria genitrice, per mancata o errata informazione» [Cass. 29 luglio 2004, n. 14488, in Corr. giur., 2004, 1431]. In generale, la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto pacificamente la legittimazione ad agire del nascituro [Cass. 29 luglio 2004, n. 14488, cit.] nella prospettiva di un diritto (positivo) a nascere sano, ma ha escluso l’esistenza nell’ordinamento italiano di un interesse a non nascere (se non sano). Nel 2012 [Cass. 2 ottobre 2012, n. 16754, cit.], invece, la Cassazione, analogamente a quanto era accaduto in Francia nel 2001 con l’arrêt Perruche, è giunta per la prima volta ad ammettere la pretesa risarcitoria del nato con gravi malformazioni genetiche nei confronti del medico che, a causa di una errata diagnosi al feto, aveva impedito alla madre di avvalersi della possibilità di esercitare la scelta abortiva. I giudici in quel caso hanno alluso al disamore o al minor affetto che il figlio avrebbe ricevuto da genitori che non lo avrebbero voluto; alla situazione di disagio esistenziale che il bambino avrebbe provato nel vivere in un ambiente familiare malpreparato ad accoglierlo.
La pronuncia del 2012 è rimasta tuttavia isolata ed è stata vivacemente criticata dalla dottrina, che non ritiene ammissibile nell’ordinamento italiano la risarcibilità di tale interesse. La questione ha poi infatti interessato le Sezioni Unite, che, nel 2015, hanno smentito l’arresto della Terza sezione del 2012, negando che il medico cui sia imputabile di aver impedito la scelta di interrompere la gravidanza possa rispondere per danni nei confronti del bambino malato.
Nello specifico, le Sezioni Unite del 2015 hanno sancito che «il nato disabile non può agire per il risarcimento del danno, neppure sotto il profilo dell’interesse ad avere un ambiente familiare preparato ad accoglierlo, giacché l’ordinamento non conosce il “diritto a non nascere se non sano”, né la vita del bambino può integrare un danno-conseguenza dell’illecito omissivo del medico» [Cass., sez. un., 22 dicembre 2015, n. 25767, cit.].
- In conclusione, nello scenario attuale, la nascita indesiderata può sì tradursi in un danno risarcibile in favore dei genitori e dei familiari più stretti ma non nei confronti del nascituro (fatta eccezione, naturalmente, delle ipotesi di danno cagionato direttamente al feto). Ciò a condizione che sussistano in concreto le condizioni legittimanti la scelta abortiva e che la donna, se fosse stata correttamente informata circa possibili malformazioni del feto, avrebbe scelto di interrompere la gravidanza (giudizio prognostico).
Inoltre, nella quantificazione del danno da nascita indesiderata il risarcimento non dovrà limitarsi al danno differenziale, vale a dire solo a quella parte corrispondente agli oneri necessari per far fronte ad una vita in condizioni di disabilità, poiché non è ritenuto accettabile l’argomento secondo cui i genitori un figlio lo avrebbero comunque voluto [così, di recente, Cass. 25 gennaio 2022, n. 2150]