La rassegna prende avvio con il contributo del Dott. Vincenzo Scibetta, Presidente della seconda Sezione civile del Tribunale di Bergamo, crisi d’impresa ed esecuzioni forzate, avente ad oggetto il Consiglio Giudiziario, organo territoriale di autogoverno con funzione anche consultiva del Consiglio Superiore della Magistratura. Organi, questi, che, nella loro costituzione, vedono la compresenza di Magistratura ed Avvocatura.
Si ringrazia il Dott. Scibetta per il suo prezioso contributo”.
Il ruolo dell’avvocatura nella valutazione dei magistrati
- PREMESSA.
I consigli giudiziari costituiscono gli organi di autogoverno decentrati, che nei distretti di ciascuna Corte di Appello svolgono funzioni consultive, formulando pareri che vengono trasmessi al Consiglio Superiore della Magistratura nell’ambito dei procedimenti riguardanti, fra l’altro, l’organizzazione degli uffici giudiziari e la valutazione dei magistrati.
Tali funzioni vengono svolte da organi collegiali – i consigli giudiziari e il Comitato direttivo della Corte di Cassazione, che costituisce l’omologo dei consigli giudiziari presso la Suprema Corte – composti da consiglieri togati (due membri di diritto – il Presidente della Corte e il Procuratore generale – e alcuni componenti elettivi, in numero variabile in proporzione al numero di magistrati del distretto) e consiglieri laici.
La composizione di tali organi è disciplinata dal decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, il cui art. 9 prevede che nei distretti più piccoli (quelli con organici complessivi fino a trecentocinquanta magistrati, quale il distretto di Brescia) il consiglio giudiziario è composto, oltre che dai membri di diritto, da sei magistrati togati (quattro giudici e due pubblici ministeri) e tre componenti non togati: un professore universitario in materie giuridiche, nominato dal Consiglio universitario nazionale su indicazione dei presidi delle facoltà di giurisprudenza delle università della regione nella quale è compreso il distretto, e due avvocati nominati dal Consiglio nazionale forense su indicazione dei consigli dell’ordine degli avvocati del distretto.
Appare evidente l’analogia con la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura: membri di diritto, magistrati di nomina elettiva e componenti laici (docenti universitari e avvocati). Questi ultimi però, a differenza dei componenti dei consigli giudiziari, sono sospesi dall’esercizio della professione per la durata della carica (art. 20 legge 31 dicembre 2012, n. 247): è pertanto esclusa ogni possibile interferenza tra la professione forense e l’attività istituzionale.
In ciascun consiglio giudiziario è istituita una sezione autonoma per i magistrati onorari, anch’essa a composizione mista: magistrati togati e avvocati – nominati dal consiglio tra i suoi componenti – e magistrati onorari eletti tra quelli in servizio nel distretto.
- LA RIFORMA DEL 2024.
Il decreto legislativo 28 marzo 2024, n. 44 ha dato attuazione alla legge 17 giugno 2022, n. 71, contenente deleghe al Governo per la riforma dell’ordinamento giudiziario (la cosiddetta riforma Cartabia).
Il decreto legislativo n. 44 del 2024 ha modificato il regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), il citato decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25, il decreto legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 (relativo alla formazione dei magistrati), il decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106 (in materia di organizzazione delle Procure) e il decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (relativo all’accesso in magistratura e alla progressione economica e di funzioni dei magistrati).
La novità più importante della riforma è la facoltà (introdotta dagli articoli 8 e 16 del decreto legislativo 27 gennaio 2006, n. 25) per i componenti non togati del consiglio giudiziario e del Consiglio direttivo della Corte di cassazione “di partecipare alle discussioni e assistere alle deliberazioni” relative alla formulazione dei pareri per la valutazione di professionalità dei magistrati (che vi sono sottoposti con cadenza quadriennale e, in caso di esito negativo, vengono dispensati dal servizio).
L’art. 11 comma quinto del decreto legislativo 5 aprile 2006, n. 160, nel testo previgente, prevedeva che in sede di valutazione della professionalità il consiglio giudiziario assumesse “informazioni su fatti specifici segnalati da suoi componenti o dai dirigenti degli uffici o dai consigli dell’ordine degli avvocati”. La stessa disposizione è attualmente contenuta nell’art. 11 bis del medesimo decreto legislativo n. 160 del 2006, inserito dal decreto legislativo n. 44 del 2024.
L’art. 11 comma settimo del decreto legislativo n. 160 del 2006, nel testo novellato, prevede che il consiglio giudiziario comunichi “al consiglio dell’ordine degli avvocati interessato, al fine di acquisirne le segnalazioni” i nominativi dei magistrati che dovranno essere valutati nell’anno successivo.
Ai sensi del successivo art. 11 bis, il consiglio giudiziario “acquisisce e valuta (…) il rapporto e le segnalazioni provenienti dai capi degli uffici, i quali devono tenere conto delle situazioni specifiche rappresentate da terzi, nonché le segnalazioni pervenute dal consiglio dell’ordine degli avvocati, sempre che si riferiscano a fatti specifici incidenti in senso positivo o negativo sulla professionalità, con particolare riguardo alle situazioni eventuali concrete e oggettive di esercizio non indipendente della funzione e ai comportamenti che denotino evidente mancanza di equilibrio o di preparazione giuridica”.
L’art. 16 del decreto legislativo n. 25 del 2006 al comma 1 ter dispone che, se il consiglio dell’ordine degli avvocati, nel segnalare fatti specifici ai sensi dell’articolo 11 bis del decreto legislativo n. 160 del 2006, “ha deliberato che questi devono comportare una valutazione di professionalità del magistrato positiva, non positiva o negativa, la componente degli avvocati esprime un voto unitario in senso conforme”. Ai sensi del successivo comma 1 quater, “se anche uno solo dei componenti avvocati intende discostarsi dalla predetta indicazione, chiede al consiglio giudiziario una sospensione della deliberazione affinché il consiglio dell’ordine possa adottare una nuova determinazione. Il consiglio giudiziario sospende la deliberazione per non meno di dieci e non più di trenta giorni e ne dà comunicazione al consiglio dell’ordine. La componente degli avvocati esprime il proprio voto in conformità alla nuova deliberazione del consiglio dell’ordine. Se questo non si pronuncia entro il giorno antecedente la nuova seduta, si intende confermata la prima indicazione”.
L’espressione del “voto unitario” della “componente degli avvocati” in consiglio giudiziario presuppone una segnalazione di fatti specifici e la valutazione da parte del consiglio dell’ordine della loro rilevanza sulla professionalità del magistrato. Nel testo riformato, l’intervento del consiglio dell’ordine può quindi estendersi alla formulazione di un giudizio, positivo o negativo, sul magistrato da parte del medesimo ordine: giudizio che viene acquisito nell’iter valutativo attraverso il voto degli avvocati presenti nel consiglio giudiziario.
Inoltre, il carattere unitario del voto degli avvocati componenti del consiglio giudiziario esclude che questi ultimi possano esprimere giudizi tra loro difformi, imponendo viceversa un voto unico indipendentemente dall’appartenenza di ciascun avvocato all’ordine che ha effettuato la segnalazione.
Analoghe previsioni sono contenute nell’art. 8 del decreto legislativo n. 25 del 2006 con riferimento al Consiglio direttivo della Corte di cassazione e alle segnalazioni del Consiglio nazionale forense.
Per completezza si osserva infine che i pareri eventualmente espressi dal consiglio dell’ordine degli avvocati costituiscono “fonti di conoscenza ai fini del conferimento degli incarichi direttivi” e della conferma dei medesimi incarichi (art. 46 sexies e 46 decies d. lgs. n. 160 del 2006).
- RIFLESSIONI CONCLUSIVE.
Non credo che il procedimento testé descritto sia idoneo a mutare, rispetto a quello previgente, l’esito della valutazione, poiché il consiglio giudiziario conserva la propria funzione di organo consultivo (peraltro composto prevalentemente da magistrati), i cui pareri possono (in quanto tali) essere motivatamente disattesi dal Consiglio Superiore della Magistratura e devono essere altrettanto motivatamente espressi all’esito di una procedura nella quale, a fronte di specifiche censure, il magistrato in valutazione ha diritto di essere sentito.
Credo quindi che non cambierà nulla per i magistrati, e tanto meno per i cittadini, trattandosi di una procedura che di per sé è neutra rispetto all’esercizio della giurisdizione e dunque non incide sulla qualità dei provvedimenti e sulla durata dei processi.
Se ciò accadrà, dovremo giudicare la riforma in esame come un’innovazione simbolica, che può essere alternativamente considerata come un apprezzabile tentativo di maggior coinvolgimento degli avvocati, nel segno di una comune cultura della giurisdizione che giustifica il loro intervento in un procedimento riguardante lo status dei magistrati, o viceversa come una possibile torsione dell’ordinamento verso una minore autonomia dei magistrati.
La mia previsione sulla probabile inutilità di tale riforma deriva non soltanto dalla lettura del dato normativo, ma soprattutto dall’osservazione di quello empirico.
Benché il legislatore abbia da tempo offerto all’Avvocatura, divenuta componente dei consigli giudiziari, la possibilità di interloquire sia sulle scelte organizzative degli uffici giudiziari sia sulle valutazioni di professionalità, non mi risulta che tale pur stimolante opportunità di partecipazione alle dinamiche dell’autogoverno sia stata pienamente colta.
Dalla lettura delle delibere del Consiglio Superiore della Magistratura non ho mai desunto segni tangibili di intervento, soprattutto nelle valutazioni dei magistrati (non infrequenti sono invece gli interventi critici sull’organizzazione degli uffici), della classe forense, che nemmeno nelle procedure più controverse si è attivata per segnalare criticità (emerse esclusivamente dai rapporti dei dirigenti degli uffici e dall’istruttoria dei consigli giudiziari).
In altri termini, non mi pare che si tratti di tematiche che appassionino l’Avvocatura.
L’ordinamento giudiziario, che per i giuristi è una materia “di nicchia” che annovera ben pochi cultori, costituisce invece per il legislatore una fonte apparentemente inesauribile di tentazioni riformatrici, che peraltro spesso si estendono alle regole processuali (sia in ambito civile che in quello penale).
Purtroppo, quale che sia l’oggetto (ordinamentale o processuale) delle frequenti riforme, si ravvisa pressoché costantemente nel tessuto normativo un comune denominatore, costituito dalle cosiddette clausole di invarianza finanziaria, che prescrivono che dall’attuazione del provvedimento legislativo “non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Si tratta dunque per lo più di riforme “a costo zero”.
La riduzione della durata dei procedimenti civili progressivamente registrata negli ultimi anni (taccio per onestà intellettuale sui procedimenti penali) non mi pare ricollegabile alle riforme adottate bensì alla progressiva diminuzione delle sopravvenienze, cioè delle nuove cause, che ha ovviamente determinato – unitamente al costante impegno dei giudici nello smaltimento dei fascicoli, che ritengo doveroso evidenziare a costo di apparire di parte – una riduzione delle pendenze.
Per ottenere risultati ancora migliori, allineando i tempi della giustizia italiana a quelli dei Paesi europei più virtuosi, occorrerebbero rilevanti investimenti: per l’assunzione di personale amministrativo, per l’edilizia giudiziaria, per l’informatica.
Ma questa, come si suole dire, è tutt’altra storia.
Dott. Vincenzo Domenico Scibetta – giudice del Tribunale di Bergamo